La private label, detta anche marca commerciale o del distributore, si chiama così perché corrisponde a quei prodotti che portano lo stesso nome della catena di supermercati in cui sono venduti, oppure che hanno nomi di fantasia comunque riconducibili all’insegna (Es. Terre d’Italia che è di Carrefour). Ve ne parlo perché questa settimana a Bologna si è svolta MARCA, la fiera italiana dedicata alle private label. Tra gli espositori di MARCA ci sono sia le insegne come COOP, CONAD, PAM ecc. che presentano le loro novità, ma anche le aziende che si propongono come fornitori di private label per la GDO. Perché certamente anche voi saprete che gran parte dei prodotti a marchio del distributore escono dalle stesse fabbriche di quelli dei principali brand.
Ci sono copacker, così si definiscono queste imprese di produzione, che sono esclusivamente vocate alla private label perché non posseggono un brand proprio e magari neanche una vera rete commerciale né punti vendita, ma producono esclusivamente per conto di terzi. Ma ci sono anche le stesse aziende di marca che si fanno allettare dall’idea di produrre volumi aggiuntivi di merce per le private label. Aggiudicarsi una private label può permettere alle aziende di marca di saturare la capacità delle linee in fabbrica con grossi volumi aggiuntivi – anche se spesso a margini di guadagno risicati – o anche ottenere altri vantaggi importanti, come ad esempio un legame più stretto con l’insegna della GDO. Intorno all’ipotesi di produrre o meno anche per le private label sorge da sempre l’eterno dubbio delle aziende di marca.
Di solito funziona così: quando un’insegna della distribuzione deve appaltare una determinata linea di prodotti realizza un capitolato in cui dà indicazioni più o meno puntuali su ricette, packaging e posizionamento di prezzo, poi invita varie realtà produttive a fare la propria offerta e magari realizzare anche dei campioni da testare a confronto con gli altri. Tanti consumatori sono convinti che comprare le private label equivalga a comprare il prodotto di marca, dato che lo stabilimento da cui escono i due è il medesimo, ma questo ragionamento non è sempre vero, soprattutto nell’alimentare. Infatti, anche se la ricetta del prodotto di marca e quello del distributore fossero identiche potrebbero comunque contenere percentuali e qualità differenti di ingredienti, che non si possono evincere solo leggendo l’etichetta o comunque non sono così immediati da valutare per la gente comune.
Bisogna però riconoscere che negli ultimi anni la marca del distributore si è fatta portatrice d’innovazione e di qualità del prodotto tanto quanto i brand leader in numerosi mercati. Sono nate appunto tante linee premium di prodotti anche nelle private label, come ad esempio Fior Fiore di Coop, Il Viaggiatore Goloso di Unes o la gamma Top di Esselunga, come si sono affermate linee biologiche, tipiche, vegetariane, senza glutine, funzionali ecc. riconducibili alla marca commerciale, ad esempio Sapori e Dintorni di Conad, Vivi Verde Coop ecc. Queste politiche della GDO sulla propria marca commerciale hanno messo molto in difficoltà il ruolo dei brand di trainare l’innovazione, ma anche di distinguersi per le loro politiche di Marketing, per posizionamento e relazione con il consumatore.
I numeri parlano chiaro: il 23% dei responsabili di acquisto intervistati da Nomisma, per il XV Rapporto sulla marca del distributore presentato nei giorni scorsi a MARCA, dichiara di scegliere l’insegna della GDO in cui fa abitualmente la spessa per le private label che propone. Addirittura il 40% degli intervistati sarebbe è pronto a cambiare insegna se questa smettesse di vendere i suoi prodotti a marchio. Insomma, le private label non sono più scelte dal consumatore solo per un fattore di prezzo, ma soprattutto perché hanno conquistato la sua fiducia. Difatti, leggiamo sempre nel rapporto Nomisma che per il 55% dei consumatori acquistare private label significa mettere nel carrello convenienza a parità di qualità; per il 31% elevata qualità in generale e prodotti da filiere tracciate, certificate e controllate per un altro 31%. Sono dati che preoccupano non poco le aziende di marca che non devono solo lottare per conquistare una presenza a scaffale nella GDO a suon di contributi in denaro, ma si vedono anche scippare pian piano il loro ruolo di leader dai prodotti dello stesso distributore.
Le private label traggono un vantaggio netto dal rapporto diretto e quasi quotidiano che il supermercato come luogo fisico ha con i suoi clienti, ma anche dalla conoscenza delle abitudini di acquisto e degli stili di vita dei clienti che la GDO ha acquisito nel tempo attraverso i programmi di loyalty e le carte fedeltà. Mentre, le aziende di marca che operano nel largo consumo non possono contare su queste leve, ma solo sulle strategie di Marketing e Comunicazione per conquistare la fiducia del cliente. Perché infatti un consumatore oggi dovrebbe preferire un prodotto di marca rispetto ad una del distributore se non per un rapporto che il brand ha saputo costruire con lui o per il fascino che una determinata marca esercita?
Peccato che Marketing e Comunicazione siano gli ambiti nei quali le aziende italiane piccole e medie sono oggi più ignoranti. Così accade che realtà guidate da manager poco lungimiranti preferiscano accaparrarsi appalti di private label investendo quelle poche risorse che hanno in impianti produttivi che supportino questo surplus, invece che puntare sulla crescita del loro brand e dirottare quelle stesse risorse in attività di Marketing e Comunicazione che gli permetterebbero di costruire awareness e fedeltà alla marca sul lungo periodo. Ma purtroppo, programmare il futuro di un’impresa non è da tutti e non interessa a tutti.
Valentina Lanza